La Cassazione boccia la sentenza della Corte d’Appello di Roma sulla responsabilità oggettiva del datore di lavoro in materia di mobbing!
ll percorso delle donne che si rivolgono alla magistratura del lavoro per ottenere giustizia in caso di mobbing, a fronte dei soprusi e delle vessazioni subite sul posto di lavoro, dal proprio superiore gerarchico, è sempre più difficoltoso.
Questo avviene a causa dell’onere di provare non solo tutti i fatti accaduti ma anche l’esistenza di un danno (alla salute, all’immagine o patrimoniale, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro).
La sentenza
Lo afferma con chiarezza la Suprema Corte di Cassazione, nella recentissima sentenza n. 4222 del 3.3.2016. Tale sentenza afferma testualmente che: “La responsabilità per mobbing, infatti, non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va inquadrata nell’ambito applicativo dell’art. 2087 c.c., e ricollegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. (Sez. L, Sentenza n. 2038 del 29/01/2013, che proprio in riferimento a fattispecie di azione per responsabilità risarcitoria del datore per “mobbing” a seguito di causa di servizio di talune infermità contratte da un dipendente – ne ha tratto la conseguenza che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a Causa dell’attività lavorativa svolta, un danno, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro).
Nel caso in parola, la Cassazione ha riformato la sentenza della Corte D’Appello di Roma che aveva condannato l’Asl a risarcire una propria dipendente dal danno da mobbing cagionato non solo da condotte direttamente imputabili all’ente nella gestione del rapporto di lavoro, ma anche per quelle compiute da un dirigente. Per quest’ultimo profilo di danno, la Corte aveva riconosciuto una responsabilità oggettiva a carico dell’Asl sull’assunto che quest’ultima non aveva adottato tutte le misure necessarie atte a prevenire il danno.
Il danno da mobbing
La Suprema Corte ha, invece, ribadito quanto già affermato da altre sentenze. Poiché il danno da mobbing appartiene alla categoria della responsabilità contrattuale, nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, occorre in primo luogo dimostrare la natura vessatoria dei comportamenti ed, in seguito, che tali comportamenti mortificanti per il lavoratore siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili.
La natura contrattuale e non oggettiva di tale responsabilità comporta che il datore di lavoro non risponda delle condotte persecutorie perpetrate dai colleghi della vittima o dai suoi superiori qualora riesca a dimostrare la non imputabilità del danno.
Va, tuttavia, segnalato che ai fini dell’accertamento del danno derivante da mobbing, la giurisprudenza è consolidata nel senso che tale danno possa essere dimostrato tramite qualsiasi mezzo, ivi incluse le presunzioni e anche tramite dati statistici che attestino le conseguenze negative di condotte vessatorie sulla psiche del lavoratore. (cfr. Corte di Cass., sez. lav., 3 aprile 2014, n. 7816; Corte di Cass., sez. lav., 11 giugno 2013, n. 17174).
Il risarcimento
Vi sono anche pronunce che evidenziano una maggiore apertura, affermando che anche laddove il lavoratore non riesca a dimostrare pienamente tutti gli elementi necessari per ottenere un risarcimento danno derivante da mobbing.
Tale carenza probatoria non comporta l’automatico rigetto della domanda. Il Giudice può sempre utilizzare gli ampi poteri istruttori previsti dall’art. 421 c.p.c. affinché la verità processuale e quella sostanziale non viaggino su binari paralleli (Cass., sez.lav., 10 dicembre 2008, n. 29006), nei limiti ovviamente di quanto dedotto nel ricorso introduttivo.
Allo stesso tempo se il lavoratore ha assolto l’onere sullo stesso gravante, il datore di lavoro, in coerenza con il principio di cui all’art. 1218 c.c., deve provare la non imputabilità del fatto e, soprattutto, nel caso di mobbing cagionato da condotte persecutorie di colleghi, di avere adottato le necessarie misure preventive e vigilato sulla loro applicazione.
Avv. Vittoria Mezzina
Codice Donna – Diritto del lavoro.