Da anni si parla del diritto del figlio alla bigenitorialità cui consegue il suo diritto ad accedere in misura paritaria ad entrambi i genitori, separati, sia quello con cui risiede, sia con quello indicato come genitore non collocatario. A questo diritto si correla in via strumentale l’esercizio in comune della responsabilità genitoriale che è destinato a garantire ai minori una crescita ed un’educazione serene ed adeguate, e, attraverso l’affido condiviso, a mantenere rapporti equilibrati e significativi con entrambi i genitori. Da una regolamentazione che dovrebbe essere attuata con saggezza ed equilibrio da entrambi i genitori, che nel rispetto reciproco e soprattutto nel rispetto dei loro figli, dovrebbero in armonia creare un ambiente idoneo per la crescita dei minori, scaturiscono, invece, i maggiori conflitti.
Si assiste – purtroppo sempre più di frequente – a situazioni in cui i genitori non riescono a gestire il loro ruolo e allontanano sempre più – agli occhi del figlio – la figura dell’altro, denigrandolo, svalutandolo, attribuendogli tutto ciò che di negativo si può configurare, sino al punto che il figlio, spaventato, rifiuta di incontrare il genitore emarginato.
Si è molto parlato in letteratura del nome da attribuire a tale dinamica, prima introdotta come alienazione parentale, poi ampiamente contestata, sia nel suo valore clinico, perché non riconosciuta dal DSM IV e V come patologia, sia perché riconducibile al suo ideatore, Gardner, che non sembra godere di alcun riconoscimento professionale e morale, come padre di una fattispecie così complessa e così delicata. Comunque sia, la Cassazione, con la sentenza n.7041/13, ha considerato irrilevante il nome da attribuire a tale fattispecie, ed ha confermato la correttezza della valutazione del giudice di merito che ha utilizzato a livello probatorio l’accertamento diagnostico di una sindrome psichiatrica indotta nei figli dal comportamento alienante di un genitore nei confronti dell’altro.
E’ un comportamento che non può essere ignorato, che lede gravemente e, forse, irreparabilmente, la crescita dei minori, il cui dolore e la cui lacerazione interna restano irrilevanti agli occhi del genitore che attua una simile frattura tra il figlio e l’altro genitore: sembra incredibile ma è così, un sempre maggior numero di padri o di madri cercano, con una condotta criminale, di annientare la figura dell’altro genitore, solo al fine di dare spazio a rancori e vecchi conflitti, che continuano a vivere nelle loro menti poco lungimiranti e poco generose nei confronti dei loro stessi figli, che soggiacciono ignari ad una manipolazione che ha il solo fine di annientare l’altro per fini tanto meschini, quanto malvagi.
Sennochè, la rappresentazione giudiziaria di tali comportamenti è molto difficile, ed ancor più difficile è la possibilità di porvi rimedio, perché non esistono – nel nostro Stato Sociale – strutture idonee per “disintossicare” un figlio e rendergli concreto e fattivo il suo diritto di accedere ad entrambi i genitori.
Gli sforzi tesi a superare tale dolorosa manipolazione, non sono quasi mai giunti a buon fine, soprattutto quando i figli sono già in età adolescenziale. A nulla valgono gli inviti della Giurisprudenza ad intraprendere un percorso terapeutico, i minori non vogliono, i genitori protagonisti di tali situazioni si sottraggono, non collaborano.
Eppure, questi stessi genitori non arrivano a pensare che far male ad un figlio in maniera così profonda e significativa, vuol dire compromettere la compagine sociale e le generazioni future che dovranno guidare il nostro Paese. Nella vita occorre aver avuto un’infanzia serena, dei genitori in grado strutturare i propri figli, fornendogli gli strumenti idonei per porre in essere le basi solide di una società sana ed inclusiva.
Simona Napolitani