La storia è singolare: cessata l’unione spirituale tra due partner, la donna vende l’appartamento in cui convivevano e costringe l’ex compagno a lasciare l’abitazione sostenendo di essere vittima di un’azione di furto o di una violazione di domicilio, per cui contatta i Carabinieri che si fanno rilasciare le chiavi dal convivente.
L’uomo non resta inerme, si rivolge, pertanto, al Tribunale e chiede di essere reintegrato nel possesso; egli riesce a dimostrare che era in corso una situazione di compossesso dell’immobile derivante dalla convivenza.
Il Tribunale condivide la ricostruzione della vicenda, così come rappresentata e provata dal convivente e lo riammette nel possesso dell’appartamento; la donna si rivolge alla Corte di Appello che conferma la sentenza del Giudice di primo grado, in particolare la Corte territoriale qualifica come compossesso la situazione di fatto derivante dalla coabitazione, stante la continuazione della convivenza more uxorio, anche dopo la vendita dell’appartamento.
La signora non si arrende e si rivolge ai Giudici di legittimità, sostenendo che in realtà la convivenza era già cessata e la situazione di compossesso non poteva essere dedotta dalla convivenza more uxorio perché la condizione di “compagno” sarebbe assimilabile a quella di un “ospite”.
I Giudici di legittimità respingono le motivazioni della ricorrente, sul presupposto che la convivenza more uxorio determina sulla casa di abitazione ove si svolge e si realizza il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su un interesse proprio ben diverso da quello derivante da ragioni di ospitalità: di conseguenza, l’estromissione violenta o clandestina del convivente legittima colui che viene privato del godimento dell’immobile, a chiederne la reintegra, sebbene non vanti alcun diritto di proprietà sull’immobile stesso.
Sono importanti le motivazioni al riguardo espresse dai Giudici di legittimità, in particolare hanno sostenuto che la relazione di fatto del convivente determina una situazione di compossesso sull’immobile in cui si svolge la vita familiare che non può essere paragonabile a quella dell’ospite. La tesi suggerita dalla donna “è contraria alla rilevanza giuridica stessa del rapporto di convivenza di fatto, che – con il reciproco rispettivo riconoscimento di diritti del partner, che si viene progressivamente consolidando nel tempo .. – dà vita, anch’essa ad un autentico consorzio familiare…”.
E’ di rilievo e va pertanto richiamata l’attenzione che la giurisprudenza sta rivolgendo alla convivenza, in particolare ha evidenziato che “ un consolidato rapporto, ancorchè di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche”, così come delineate dall’art. 2 della Costituzione, laddove “per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo delle persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico.” Sempre sulla scia di tale ragionamento, la Corte ha affermato di considerare la formazione sociale della convivenza more uxorio come fonte di diritti e di doveri di ciascun partner nei confronti dell’altro, conseguentemente “ il convivente gode della casa familiare, di proprietà della compagna o del compagno, per soddisfare un interesse suo proprio, oltre che della coppia, sulla base di un titolo a contenuto e matrice personale, la cui rilevanza sul piano della Giuridicità è custodita dalla Costituzione, sì da assumere i connotati tipici della detenzione qualificata.”
La Corte ha inoltre chiarito che tale ragionamento non vuole pervenire ad una parificazione tra la convivenza e il matrimonio, contrastante con la stessa volontà degli interessati, che hanno liberamente scelto di non vincolarsi con il matrimonio proprio per evitare in tutto o in parte, le conseguenze legali che discendono dal coniugio, ciononostante tale distinzione non comporta che il rapporto del soggetto con la casa destinata ad abitazione comune, ma di proprietà dell’altro convivente, si fondi su un titolo giuridicamente irrilevante quale l’ospitalità, anzicchè sul negozio a contenuto personale alla base della scelta di vivere insieme e di instaurare un consorzio familiare, come tale anche socialmente riconoscibile.
Pienamente condivisibile il ragionamento dei Giudici della Suprema Corte, al quale ritengo si debba fare una precisazione: la convivenza non sempre è una scelta, talora, infatti, i partner non possono sposarsi o per salvaguardare situazioni ereditarie, legate ad altri familiari, o perché legati ancora e spesso a lungo a precedenti matrimoni, in attesa di pronunce da parte dell’Autorità Giudiziaria; in tale contesto sarebbe giusto e doveroso dare loro la possibilità, se vogliono, di regolamentare i loro rapporti in virtù di un’apposita legge, senza dover fare appello ai contratti di convivenza, che trovano oggi risposta nell’art. 1322 c.c., ma ancora assai discussi e tanto poco praticati.
Avv. Simona Napolitani