Qualche anno fa, il Tribunale di Torino ha inquadrato il comportamento violento del marito come mobbing familiare. Recentemente, la Corte di Cassazione ha riaffrontato l’argomento, con diversa interpretazione. Per Mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente, nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) che finiscono per assumere forme di prevaricazione o persecuzione psicologica, da cui può conseguire una mortificazione morale e l’emarginazione della persona subordinata, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. La nozione di mobbing è particolarmente utile per fotografare quelle situazioni patologiche che possono sorgere in presenza di un dislivello tra gli antagonisti, dove la vittima si trova in posizione di costante inferiorità rispetto ad un’altra o ad altre persone, e ciò spiega perché è con riferimento ai rapporti di lavoro che quella nozione è stata elaborata ed ha avuto applicazione. In ragione di tale definizione, i Giudici di legittimità non hanno ritenuto di poter inquadrare nella fattispecie del mobbing i comportamenti persecutori del marito; ciononostante, la Cassazione afferma dei principi molto importanti rispetto alla valenza dei rapporti familiari, nel cui ambito vige il principio di uguaglianza morale giuridica tra i coniugi, sulla base degli articoli 3 e 29 della Costituzione; l’unità familiare, che in passato aveva consentito di giustificare l’autorità del marito, è oggi affidata all’accordo dei coniugi che condiziona la costituzione e conservazione del rapporto matrimoniale. La nozione di mobbing – sempre secondo i Giudici di legittimità – è utile in campo sociologico, mentre in ambito giuridico i comportamenti illeciti vanno inquadrati, non solo come addebito della separazione, per violazione del dovere di assistenza morale e di collaborazione, ma anche come violazione del principio del rispetto della dignità e della personalità dei coniugi, violazione che può altresì rilevare come fatto generatore di responsabilità aquiliana.
Talora non ha importanza attribuire un nome ad una condotta illecita, l’importante è che i principi di libertà, di uguaglianze e di rispetto vengano sempre fatti salvi.
avv. Simona Napolitani – avvocatonapolitani@gmail.com